“Parliamone” una delle sezioni che preferisco quando mi imbatto su siti di vario genere.
“Parliamone” certo, con piacere!. Mi sono sentita chiamata in causa direttamente da questo verbo inclusivo, e indirettamente dalla mia esperienza come ex malata. Era il 2013, dieci anni fa e a leggere tutte le nuove metodologie di cura sempre più personalizzate mi sembra un’era geologica molto lontana.
Un’era in cui chi si ammalava erano le over 40 , in cui c’erano i primi timidi approcci al malato e alla sua Persona, si iniziava a dare spazio alle associazioni delle pazienti, ognuna con un suo scopo.
Erano gli anni in cui si iniziava a usare i social e nascevano i primi gruppi di malati che condividevano le gioie, ma il più delle volte i dolori del percorso. Anni in cui le donne ( avendo avuto io un tumore al seno) iniziavano a “ portare in piazza” le proprie difficoltà, un uragano rosa capace di parlare dei tanti effetti collaterali delle cure e dei risvolti sociali che ha la malattia.
Erano anni che forse noi malate abbiamo dato una immagine a mia opinione un po’ distorta di combattenti, di eroine capaci di sfidare la vita ignota che avevamo di fronte e poche di noi ricorreva alla guida seria e sicura di uno psicologo, perché non ne sentivano bisogno e perché erano FORTI per tutti.
Oggi, guardandomi intorno, vedo sempre più donne giovani che si ritrovano a combattere con un tumore al seno. Di per se un tumore , viene asportato chirurgicamente , l’iter ospedaliero non è poi così impattante, ma il dopo? Degli effetti collaterali di una menopausa precoce, di una stanchezza cronica che ti accompagna, del calo del desiderio e di una probabile infertilità chi gliene parla? O meglio chi va oltre all’elenco di effetti negativi? Si troverà qualcuno che prima di spiegarle le statistiche e i numeri legati alla sopravvivenza, alla fertilità o a qualsiasi cosa abbia a che fare con un numero le chieda: che progetti ha per il futuro?
E se volesse avere figli? O se non ne volesse avere per qualsiasi motivo?O se magari una coppia ha già un figlio e ne vorrebbe avere un altro? Cosa c’è di male ad avere progetti di vita, in un momento in cui dovresti pensare solo a portarti a casa questa di vita?
Ed ecco ancora che una donna si potrebbe sentire in colpa solo per il fatto che essendo malata, il suo unico scopo dovrebbe essere quello di “uscire viva e allevare il figlio che ha”. Che cultura della vita stiamo portando avanti? Per fortuna gli studi scientifici progrediscono e oggi grazie a certi studi tante giovani donne con tumore aventi certe caratteristiche , potranno permettersi la sfida di diventare mamme !
Spero che qualunque scelta una donna si trovi a fare, non si senta mai sola né in colpa per la decisione presa!
Anna Ravanelli